La Corte di Cassazione ha emesso una significativa sentenza riguardante l’utilizzo di messaggi scambiati su una chat privata WhatsApp come motivazione per un licenziamento disciplinare, stabilendo l’illegittimità del provvedimento e ordinando il reintegro del lavoratore.

Il Contesto della Vicenda

I fatti risalgono al 2018, quando un operaio di un’azienda fiorentina fu licenziato a seguito della diffusione di contenuti, sia testuali che vocali, da lui condivisi all’interno di un gruppo WhatsApp composto da 12 colleghi. Tali contenuti erano stati giudicati offensivi nei confronti dei superiori gerarchici. La comunicazione interna al gruppo privato è pervenuta alla direzione aziendale tramite l’inoltro effettuato da uno dei partecipanti alla chat. Di conseguenza, l’azienda ha proceduto al licenziamento per giusta causa, ritenendo i contenuti lesivi del rapporto fiduciario.

Iter Giudiziario

Il lavoratore ha impugnato il licenziamento. Dopo una prima pronuncia favorevole da parte della Corte d’Appello di Firenze, che aveva già riconosciuto l’illegittimità del provvedimento, la questione è giunta all’esame della Corte di Cassazione per la decisione definitiva.

Motivazioni della Cassazione

La Cassazione ha confermato l’illegittimità del licenziamento, fondando la propria decisione sul principio fondamentale della tutela della riservatezza delle comunicazioni private. I giudici hanno qualificato la chat di gruppo su WhatsApp come una forma di corrispondenza privata, caratterizzata da un accesso limitato ai soli membri del gruppo e protetta tecnicamente da crittografia end-to-end.

La Cassazione ha sottolineato come tali comunicazioni, avvenendo tramite dispositivi personali e all’interno di un ambiente digitale chiuso, non possano essere considerate di dominio pubblico. L’organo giudicante ha equiparato la natura di tali messaggi a quella della corrispondenza epistolare tradizionale inviata in busta chiusa, la cui segretezza è costituzionalmente garantita. Pertanto, il contenuto della chat, ottenuto dall’azienda tramite l’inoltro da parte di un terzo membro del gruppo, non poteva essere legittimamente utilizzato come fondamento probatorio per irrogare la sanzione disciplinare espulsiva. Il diritto alla riservatezza del lavoratore è stato ritenuto prevalente in questo specifico contesto.

Decisione Finale e Conseguenze

In virtù di tali motivazioni, il licenziamento è stato definitivamente annullato. La Corte ha disposto il reintegro del lavoratore nel proprio posto di lavoro e ha riconosciuto il suo diritto a percepire tutte le retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento illegittimo fino alla data dell’effettivo reintegro.

Rilevanza Giuridica

La sentenza costituisce un importante precedente giurisprudenziale nel definire i limiti del potere disciplinare del datore di lavoro in relazione alle comunicazioni digitali private dei dipendenti. Essa riafferma la necessità di rispettare la natura confidenziale delle conversazioni che si svolgono in contesti comunicativi chiusi e protetti, anche qualora queste riguardino tematiche inerenti all’ambiente lavorativo, stabilendo un punto di equilibrio tra le esigenze organizzative aziendali e i diritti fondamentali del lavoratore, inclusa la libertà e segretezza delle comunicazioni.


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